lunedì, luglio 23, 2018

Buon compleanno Alessio!

Dopo anni di nulla, ricordo la gioia di vederlo correre sulla fascia e saltare come birilli gli avversari.
Direi che di persone che possiamo disprezzare, noi del Toro, ne abbiamo a bizzeffe.
Ecco, io non sceglierei Cerci per fare questa operazione, non lo merita.
 

Tutti a ricordare cosa scrisse la fidanzata e mai nessuno a pensare a quello che si è tatuato sulla pelle...
Poteva finire meglio, d'accordo, ma è inutile rivangare il passato. Con questi parametri, cosa dovremmo mai dire di un Balzaretti?

Io ad Alessio vorrò sempre bene

venerdì, luglio 13, 2018

Quanto pesano i fantasmi

Ho finito ieri sera questo libro «The Things They Carried» (nell'edizione italiana del 1991) che è stato recentemente ripubblicato con un nuovo titolo italiano ("Le cose che portiamo") e una nuova traduzione di Carlo Prosperi.
O'Brien era un autore che non conoscevo e che ho scoperto da poco grazie ad un articolo de "La Lettura" ( CFR.: «la Lettura» #342, in edicola da domenica 17 a sabato 23 giugno 2018).
Nell'articolo O'Brien citava come miglior libro sul Vietnam "Dispacci" di Michael Herr e miglior film «Il cacciatore» di Michael Cimino (1978). Avendo amato entrambi, ho pensato bene di leggere il libro di O'Brien che mi è piaciuto ma non mi ha convinto del tutto, forse per limiti miei. O'Brien prende spunto da eventi reali per trasfigurarli, modificarli e inventare situazioni verosimili. Il gioco è dichiarato esplicitamente, ma personalmente questa "crasi" non mi è piaciuta. Anche perché sull'espediente l'autore gioca molto raccontando per esempio la stessa storia cambiandola diverse volte, al limite dello stucchevole. Il senso l'ho colto e non ne nego l'efficacia, ossia il messaggio sull'assurdità del conflitto passa chiaramente, ma personalmente avrei preferito leggere due libri: un romanzo e un racconto veritiero/saggio. In alcune recensioni su "Quanto pesano i fantasmi" ho letto un accostamento a "A sangue freddo" di Capote (un capolavoro assoluto), per quanto concerne la tecnica utilizzata. Accostamento secondo me errato là infatti i fatti erano tutti veri, arricchiti con espedienti tipici del romanzo. Qui non si capisce mai quello che è vero e quello che non lo è.
La scrittura è di alto livello e alcune immagini sono davvero magistrali, quindi la lettura è consigliata. Per le perplessità di sopra ho però deciso che non leggerò il suo romanzo più famoso "Inseguendo Cacciato"...avendo letto che il libro è "stralunato, grottesco, onirico".
Il particolare quando leggo il termine "onirico" associato ad un libro è quello che mi fa capire immediatamente che non fa per me. Con unica, significativa eccezione de "Il maestro e Margherita"...

giovedì, febbraio 22, 2018

Tornando a bomba...1894


    La prima squadra di Torino

Autunno tedesco

Visto che spesso mi si accusa di scrivere solo del Toro (o al massimo di parlar male della mia Santippe), mi permetto di condividere una recensione ad un libro che ho finito di leggere da poco, grazie ai miei viaggi culturali gentilmente offerti da SADEM.

E' inutile dire che gli amici gobbi che abbisognano di delucidazioni in merito, onde seguire a grandi linee il filo del discorso, possono contattarmi in privato.

Scopriranno eventi incredibili e sconosciuti, ma di un certo interesse. Poi potranno tornare agli scritti di Higuain, ma con maggior consapevolezza.

AUTUNNO TEDESCO (Tysk höst 1947) di S.Dagerman

Stig Dagerman si recò alla fine del 1946 in Germania, visitando parecchie città distrutte dalla guerra e vi rimase per un paio di mesi. Fece poi ritorno in patria, in Svezia, per poter riflettere e scrivere e non "abituarsi" a vedere una sequenza ininterrotta di macerie e di persone sofferenti, un aspetto – l’abitudine - che avrebbe probabilmente inficiato i suoi resoconti.

Dagerman, morto suicida il 5 novembre del 1954, era anarchico e, partendo da una posizione non ideologica né preconcetta, scrisse un reportage giornalistico - anche se lui non si definiva certo un giornalista, non a caso dice a pag 132: "Il giornalismo è l'arte di arrivare tardi il più in fretta possibile. Io non la imparerò mai" -  che ha il valore di opera letteraria.

Lo scrittore svedese, riesce a mettere in luce aspetti incredibili delle vicende post-belliche tedesche (la farsa dei processi di de-nazificazione, la possibilità di "acquistare" da un ebreo una artefatta testimonianza favorevole negli stessi ecc) e paradossi politici (le pretese nazionalistiche del socialdemocratico Kurt Schumacher che avevano il pieno appoggio degli "ex" nazisti).

Per la sua onestà intellettuale e la vicinanza umana alle sofferenze raccontate, senza per questo in alcun modo sminuire le responsabilità dei tedeschi nello scatenare e condurre una guerra spietata (episodio del ponte di transenne ricoperto, per scherno, di corpi nudi di russi uccisi dalla Wehrmacht) fu duramente criticato. 

La sua grande sensibilità emerge chiaramente nei suoi articoli che in ogni caso risultano asciutti e non si dilungano inutilmente in descrizioni superflue, gli permette di fare una riflessione, e siamo nel 1946, su una questione che, nei successivi 70 anni, ossia fino ad oggi, è stata molto dibattuta e risulta ancora complessa, scrivendo parole illuminanti: perché i sopravvissuti ai campi di concentramento non vogliono ricordare?

Dagerman scrive profeticamente: "La sofferenza, una volta sofferta, non deve più esistere. Questa sofferenza era sporca, disgustosa, bassa e meschina, e per questo non si deve né parlarne né scriverne. La distanza è troppo breve tra la poesia e la più grande delle sofferenze; solo quando diventerà un ricordo purificato i tempi saranno maturi." 
(pagina 124).

Gli articoli furono raccolti ed emendati nel libro che uscì nel 1947, solo a fine anni 70 iniziò ad essere tradotto all’estero, in Germania, Francia ecc in Italia arrivò, ahimè, solo a fine anni 80.


Leggete questo capolavoro.

Torino, Edizioni Lindau, 2007 
(con il saggio di Fulvio Ferrari, L'arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile). 

giovedì, febbraio 01, 2018

Chi non salta insieme a noi cos'è?

Campionato nazionale under 17
Domenica 27 gennaio 2018 un Toro primo in classifica travolge la Juventus 4-1.
A fine gara i Ragazzi del Toro esultano così:



Grazie Ragazzi!
Vi vogliamo così!
FVCG

lunedì, gennaio 22, 2018

Professore di cosa?

In quel ristorante dove si mangia un ottimo pesce vado di rado, non è proprio in una posizione comoda per me, ma soprattutto perché mi piace centellinare le mie presenze
per gustarmi meglio le prelibatezze che propone.
Il proprietario, dallo stile sempre impeccabile, si ricorda di me e mi accoglie piacevolmente, mi fa accomodare in una stanza dove ad un altro tavolo è già seduta una persona,
un signore anziano che, dopo qualche minuto, amabilmente, scambia, lui per primo, qualche parola con me.
Mi dice che viene spesso, essendo goloso e abitando lì vicino e che i proprietari sono persone per bene.
Ammetto di essere anch'io goloso, di amare il buon cibo e di aver già apprezzato in passato il clima che si respira nel locale.
Poi arriva il mio piatto e mi metto a mangiare, smanettando contemporaneamente sullo smartphone.
Arriva anche per il signore un secondo piatto, "tutto a posto professore?", chiede Silvio, il proprietario.
Passa qualche minuto e, superando la castrante discrezione sabauda, avendo capito che al mio commensale non sarebbe dispiaciuto continuare a chiacchierare
ed effettivamente incuriosito dalla persona, chiedo: "mah...professore di cosa?".

Antonio, così si chiama il signore, è "ricercatore in Biotecnologie", mi dice, anzi, precisa, un "ex".
Mi racconta di alcuni suoi studi, che si è laureato in psicologia a Padova, del master a Bologna. Dell'amore per gli studi classici, studi fatti non in gioventù, con difficoltà
partendo da una famiglia poverissima.
Mi parla di come pensa l'insegnamento per i più piccoli, all'importanza del metodo di studio.
Il discorso è interessante. Anch'io, dico, ho fatto un master, dopo la laurea a Torino e, avendo due bambini piccoli, sono particolarmente attento ad ascoltare delle considerazioni sulla loro educazione.

Inizio a pensare che sarebbe bello, essendo persona piacevole e lucida, nonostante l'età non più giovanissima, averlo come
utente al prossimo test di usabilità, forse una scusa per non perdere la possibilità di rivederlo in futuro.
Chiedo quindi se ha dimestichezza con l'uso del computer, "certo" mi dice.
Mi faccio dare i suoi dati e lascio i miei, dicendo dove lavoro: "ah! proprio lì ho imparato ad usare il computer! E poi l'ho insegnato ai ragazzi delle 150 ore"
Il clima è piacevole e diventa amichevole.
Non ricordo bene come o perché, mi chiede di quale squadra io sia.
Con malcelato vanto, preciso di essere del Toro, di quale altra squadra dovrei mai essere?
Avendo abbandonato il "lei", a mia volta domando: "E tu?" Come facevo da ragazzino e come forse, non lo so, si fa ancora tra ragazzi.
Lui rimane un attimo in silenzio...ed io, lo ammetto, penso male, mi dico, una persona così piacevole deve essere dei nostri, invece questa titubanza mi fa pensare che sia dei loro...
ma poi Antonio mi rassicura: "Sono del Toro anch'io!". Non poteva essere diversamente.
Un altro punto in comune.
Si passa quindi da un clima amichevole ad uno fraterno, com'è normale tra granata, nonostante la differenza d'età, io a metà dei quaranta, lui a metà dei settanta.
Lui mi racconta con grande entusiasmo dei libri che ha scritto sul Toro, parliamo dei tifosi vip granata che lo hanno deluso e di quelli che lo hanno aiutato
nelle sue iniziative benefiche a favore dei bambini.
"Anche Silvio è del Toro!" mi fa.
Silvio ci raggiunge e insieme ci mettiamo a ricordare i vecchi tempi, amici tifosi che ahimè non ci sono più e si pensa di fare una cena, con quei tifosi veri,
con qualche ex giocatore (Eraldo Pecci).
Parlando amabilmente viene anche fuori che Antonio è stato arbitro di calcio, come me! E poi dirigente AIA.
E, mentre io sto facendo il corso da Osservatore, mi rivela che partecipò a definire il nuovo nome del "commissario" di campo,
oggi noto appunto come "Osservatore arbitrale" (lui aveva proposto "Osservatore tecnico").
Ricordiamo amici comuni che hanno fatto parte dell'associazione e a quel punto, dopo aver salutato Silvio,
Antonio mi chiede di accompagnarlo al bar accanto del tifoso del Toro che non c'è più per offrirmi un caffè.
Sembra una maledizione, ma è sempre così con il Toro, è "vita", la sua bellezza che si intreccia con le sue inevitabili tragedie, in continuazione, ahimè... 
Lo seguo e continuiamo a parlare, mi dice di aver fatto parte del consiglio di amministrazione del Toro di Borsano e
quando gli parlo del viaggio ad Amsterdam in treno, per la finale di Coppa UEFA, mi dice che c'era anche lui,
volato in Olanda con i dirigenti del tempo, dopo aver detto alla moglie che era in trasferta per lavoro.
Ridiamo delle pazzie che questa maglia colore del sangue ci fa fare.
Usciamo ed incrociamo di nuovo Silvio e ribadiamo la volontà di rivederci un lunedì sera, quando il suo locale è chiuso.
Distratto dalla condivisione dei nostri ricordi, non so neanche più dove ho messo la macchina e camminiamo su e giù per la via fino a ritrovarla dopo un po'.
E' una macchina familiare e l'associazione mentale mi porta a parlare del mio amore per i miei due bambini.
Il momento più triste è quello del saluto, io gli faccio vedere le foto dei miei bimbi vestiti di granata
e lui mi dice che gli sarebbe piaciuto diventare nonno, ma non è stato possibile.
Dal suo tono immagino quello che mi dirà, poi Antonio mi conferma la morte in giovane età del suo unico figlio, per un maledetto incidente stradale.
Io sono commosso, come lo è lui, chiedo di poterlo abbracciare. Antonio acconsente.
Ci stringiamo forte, come vecchi amici anche se ci conosciamo da un'ora.

A stretto giro di posta, come si dice, Antonio mi manderà poi alcune foto inedite del Grande Torino, come mi aveva promesso,
e un saluto dove mi invitava a sorridere sempre.
Con queste parole intendo ringraziarlo per il tempo che mi ha dedicato e per il suo insegnamento,
una persona fisicamente minuta ma che mi ha mostra grande forza, non perdendo la dolcezza
nonostante le prove che ha dovuto affrontare nella sua vita.
Ti voglio bene, Antonio.

E poi qualcuno ti vuol fare credere che il Toro è una squadra come un'altra...

venerdì, gennaio 12, 2018

"Decifrare il futuro con i classici" di Ester Armanino

Perché se tu e io vivessimo nell’Odissea e uno straniero si presentasse alla nostra porta, prima gli prepareremmo la cena, poi lo faremmo mettere a suo agio con un po’ di musica, e solo dopo gli chiederemmo: chi sei, straniero? qual è la tua storia? Perché se ci scrivessimo messaggi in greco antico, potremmo usare la forma duale che non indicherebbe un noi generico, per molti, ma proprio per noi due, me e te. Perché la Divina Commedia finisce dicendo che è l’amore che muove il sole e le altre stelle: pensa cosa è in grado di fare se gli permettiamo di agire.

Queste sono alcune delle risposte che darei ad un figlio o una figlia se mi chiedesse perché scegliere il liceo classico oggi. Risposte pratiche, lo riconosco, ma sono le stesse risposte che mia madre mi ha dato nel lontano 1995 e che all’epoca mi sono sembrate rivoluzionarie. E per questo è giusto festeggiare questa sera alla Notte dei Licei.
Della questione mi capita di parlare abbastanza spesso, forse perché dentro di me ho ancora accesa la torcia olimpica di un’adolescenza “classica”. Molti sostengono che lo studio del greco e del latino sia una faticosa perdita di tempo, uno sforzo che ruba energie allo studio di materie che invece vanno al passo con i tempi, e a un certo punto della conversazione se ne escono con: ma scusa, sinceramente, a che serve studiare una lingua morta?
In quel momento, confesso, mi sento incredibilmente viva.
E allora come motivazione aggiungerei: perché ti sentirai incredibilmente vivo tra i morti e morto tra i vivi, imparando che il tempo è una soglia che puoi spostare a tuo piacimento attraverso l’arte.
Perché ogni minuto passato a discutere sulla traduzione di una parola difficile, complicata da aprire una cassaforte con la sua combinazione, sarà proporzionale alla tua volontà di comprendere il mondo, e ci vorrà sempre più pazienza, credimi, le lingue morte da due diventeranno centinaia ma se tu sarai preparato, comprenderai.
Perché è importante imparare un mestiere, ma più importante è imparare a pensare. E non c’è fatica così poco pratica ma tanto ripagata come quella di chi forma il suo pensiero sulla cultura classica.
Perché, non hai visto quel tatuaggio che ti piace, cosa dice? Per aspera, ad astra.
A un figlio o a una figlia che stasera potrebbe capitare alla Notte dei Licei, non ho dubbi, risponderei così.

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
dalla prima pagina (continua a pagina 25) de LA STAMPA del 12.01.18

mercoledì, novembre 22, 2017

TRUE LOVE

Il mio Amore più grande, si lava i denti, come tutte le sere, e corre a nanna... Le chiedo quale fiaba voglia sentire, prima di addormentarsi.
Mi dice che, essendo tardi e avendo già visto un cartone in televisione, questa sera, come ha promesso alla mamma, va a letto subito.

Rimango un po' deluso, mi piace molto la sera leggere un racconto o una fiaba ai bimbi.
Allora opto per una fiaba "breve", inventata sul momento, per farla ridere un po'.
UG: "Ti racconto una fiaba breve...Un topolino cade in un buco. Fine."
Giorgia si diverte moltissimo per questo racconto brevissimo e un secondo dopo commenta:
"Comincia bene e finisce male".
Sarà che sono di parte, ma mi è sembrato un commento geniale, arguto.
Sempre più pazzo di Lei.

lunedì, agosto 07, 2017

un grazie alla Pesando

Lo "switch" nella lettura, mi pare di ricordare, avvenne grazie, o per colpa, della professoressa Pesando che, al ginnasio, ci diede da leggere per l'estate "Il maestro e margherita". Lo lessi dapprima con poco entusiasmo, essendo un "dovere" farlo, ma poi con interesse e infine con avidità.

Avevo già letto ovviamente un po' prima, ma con quel libro meraviglioso iniziai a capire che leggere era un piacere sublime e a distinguere cosa era meglio leggere.
Poi è diventata una malattia, ma dopo.

la scheda del libro

venerdì, agosto 04, 2017

Il mio secondo dizionario delle SERIE TV cult

Il mio secondo dizionario delle SERIE TV cult.
Da Beverly Hills a The Walking Dead
Libro di Claudio Gotti e Matteo Marino
Illustrazioni di Daniel Cuello

...e il primo?
(ce l'ho, ergo il promemoria mi interessava meno...)

Titolo: Il mio primo dizionario delle serie TV cult
Autori: Matteo Marino e Claudio Gotti
Disegni: Daniel Cuello
Caratteristiche: 416 pp. bn, brossura con alette

Le sigle più belle.

I personaggi più amati.
I peggiori "salti dello squalo".
Le battute indimenticabili.
Le carriere dei creatori, da David Lynch a J.J. Abrams, da Shonda Rhimes a Vince Gilligan, da Joss Whedon ad Alan Ball. 

Contiene le seguenti serie:

1. 24

2. Battlestar Galactica
3. The Big Bang Theory
4. Boris
5. Breaking Bad
6. Buffy
7. CSI
8. Daredevil
9. Dawson’s Creek
10. Desperate Housewives
11. Dexter
12. Doctor Who
13. Dr. House
14. ER
15. FlashForward
16. Friends
17. Gomorra
18. Grey’s Anatomy
19. Lost
20. Mad Men
21. Modern Family
22. Mr. Robot
23. Orange Is the New Black
24. Penny Dreadful
25. Romanzo criminale
26. I segreti di Twin Peaks
27. Sex and the City
28. Six Feet Under
29. I Soprano
30. Il Trono di Spade
31. True Blood
32. True Detective
33. X-Files


Hanno detto del libro:

«Un libro indispensabile» (Rolling Stone)

«L’incontro perfetto tra analisi critica e amore per la cultura pop» (Film TV)

«Il meglio delle serie degli ultimi vent’anni. Ma poiché di un “primo” dizionario si tratta, c’è sempre la speranza di una seconda puntata» (la Repubblica)

«Altissima qualità di scrittura. Cura e passione che trasudano da ogni pagina» (MondoFox)

«È esattamente ciò che mancava» (Dailybest)

«Piaciutone. Bello, bello, bello» (L’Antro Atomico del Dr. Manhattan)

mercoledì, luglio 19, 2017

AB OVO

Mi presento allo sportello, dico come mi chiamo, preciso, come tradizione, "si scrive con la Y"...e, forse per la prima volta in vita mia, il tipo non pare "sorpreso" dal nome poco comune e anzi mi fa: "ha parenti a Lusignè?"
Rimango spiazzato io questa volta, di solito mi chiedono impanicati che lettera sia la "Y" e, di solito, la sbagliano.
Come quella, oltraggio estremo, che mi chiese "Y? Come la Y di Juventus?"

Dico di no, non mi risultano parenti in quel luogo...però in effetti mio nonno, prima di arrivare a Settimo, all'inizio del 900, veniva proprio da quelle zone del Canavese.
Ovviamente mi incuriosisco subito e chiedo qualcosa di più.
"Ho venduto una casa ad un signore di quelle parti che si chiamava così"
"ah...forse fa il fotografo a Rivarolo?"
ricordando un mio omonimo incrociato qualche anno fa.
E lui di rimando:"no. Fa il contadino".

Ecco un'origine più nobile non potevo desiderarla e sognarla.
Mi avesse detto "è il sindaco del paese, il prete, l'impiegato delle poste o il maresciallo" il mio interesse sarebbe scemato.
Ma immaginare che, dalla notte dei tempi, un mio discendente vive ancora nelle stesse zone di origine e lavora la terra come poteva fare un mio avo qualche centinaia di anni fa, mi ha riempito di orgoglio e, per certi versi, di nostalgia. Mi capita sempre quando si parla delle mie radici.
Prossima tappa? andare a cercarlo.

martedì, luglio 04, 2017

Fantocci!

Per andare al ginnasio e poi al liceo, prendevo, tutte le sante mattine, un treno che in una ventina di minuti mi portava a destinazione. O meglio, poi camminavo per altri 10-12 ed ero arrivato. Sempre insieme ai miei amici.
Preciso che all'epoca i treni arrivavano in orario, nonostante Lui non ci fosse già più da un po'.

Se la sera prima in Tv era "passato" un film di Paolo Villaggio, la mattina dopo non si parlava d'altro, in particolare al binario n. 2 - due ce n'erano del resto - aspettando il treno.

E' vero l'offerta televisiva era limitata, non c'erano TV a pagamento, non c'era internet, non c'era un cazzo.
Ciò premesso, tutti, o quasi tutti (i "dark" no, in effetti) ci ritrovavamo lì a raccontare la scena, che tutti già conoscevano a memoria, per ridere ancora, tutti a cercare di riprodurre con le stesse parole - e lo stesso tono - la battuta che avevamo preferito. Qualcosa di paragonabile poteva succedere solo con "Amici miei", ma meno in effetti.

Manco Edwige riusciva a suscitare, il mattino dopo, lo stesso entusiasmo, la sera prima no, ma questo è un altro "film" e ci porterebbe fuori strada.

E' vero eravamo solo ragazzini, ma forse qualcosa di simile succedeva anche nel mondo dei "grandi" che a noi era totalmente sconosciuto, ricordo solo che quell'universo ci appariva abbastanza serioso.
Boh forse i quarantacinquenni d'allora erano cazzoni come quelli di oggi, ma senza internet lo si notava meno...

Ciao "Ugo",
Ugo

lunedì, giugno 05, 2017

In ricordo di un amico

Nei giorni scorsi un grave lutto, un evento che probabilmente non si supera mai del tutto,
ha colpito un mio caro amico d’infanzia, la morte del padre.
Lo ricordo bene, “granatissimo” e orgoglioso dipendente della Fabbrica Italiana Automobili Torino, come mio padre e come quasi tutti “i padri”, a Settimo in quegli anni. All’epoca non c’era contraddizione tra le due cose. Altri tempi.

Voglio scrivere due righe per ricordarne la memoria e per ringraziarlo per il tempo che mi dedicò.
Purtroppo era malato da tempo e scherzando, tramite il figlio, l’avevo invitato, nel caso, di diventare della Juve, cosa difficile per lui cuore Toro, perché così se ne sarebbe andato uno dei loro…

Siamo a metà degli anni ‘80, si stipava la macchina, rigorosamente una FIAT, di ragazzini, ossia i suoi figli e alcuni dei loro amici tra i quali, sempre presente, il sottoscritto e si partiva per il Comunale.
Sempre stessa strada, passando dalla collina. Con la pioggia, con il freddo o col sole che bruciava.
Lui, oggi mi è chiaro, felice come un bambino, noi di più.
Si partiva molto presto, anche se non era necessario, diceva per trovare posteggio comodo, secondo me per assaporare ogni momento della giornata. Il tutto aveva qualcosa di rituale e, ai nostri occhi, di magico. Il profumo dell’erba e quello acre dei fumogeni, specie sotto il bandierone che copriva tutta la curva e, a squarciagola, all’improvviso si udiva il nostro urlo di battaglia:
“Forza vecchio cuore granata! Forza vecchio cuore granata!”
Poi, a contorno, la partita, tutta un’altra cosa, ovviamente, rispetto alla radiolina della sonnolenta periferia di Settimo Torinese, in televisione infatti, bei tempi, non facevano vedere nulla.
Il Torino del tempo era volitivo, non scarso come quello che avrebbe calcato i campi tra fine anni ‘90 e buona parte dei 2000…Noi però il futuro non lo ipotizzavamo, un po’ perché ragazzini e un po’ perché 20 anni di nulla come fai ad immaginarli? Ci facevamo guidare solo dal nostro entusiasmo, lui nicchiava, lasciava fare, ne aveva viste tante e ne sapeva tanto più di noi. Alcune sue battute sugli arbitri io, inesperto ed ingenuo, non le comprendevo appieno…ma quanto aveva ragione, col senno di poi!
Si andava sempre in Maratona, sciarpe al collo, io cercavo di portare tutti sempre un po’ più al centro, per gridare di più, per tutta la partita ovviamente. Il giorno dopo si doveva andare a scuola senza voce.
Lui non gridava, ma si incazzava più di noi. E’ una “malattia” la nostra che in effetti è così, più invecchi più ti entra dentro e non va più via...
Spesso si vinceva, a volte si perdeva ed allora la disamina in auto era ricca di scontri e di polemiche tra di noi, e sempre alla fine c’era il suo confronto inclemente con quelli dello scudetto del ’76; il Grande Torino era troppo sacro per essere chiamato in causa e non lo si faceva mai. In particolare a uscirne a pezzi erano gli attaccanti: “Pulici quel goal lo faceva ad occhi chiusi!” oppure “Graziani ne faceva tre!”…”Tre ne faceva!” insistendo e ripetendo, com’era solito fare, le ultime parole pronunciate, per dargli ancor più forza.
Noi tendevamo ad arrabbiarci un po’ per la severità del suo giudizio e a difendere i “nostri” paladini, benché ovviamente più scarsi dei “suoi”.
Mi vengono i brividi nel ricordarlo ed è difficile trattenere le lacrime quindi…
Grazie di tutto e buon viaggio Bruno!

giovedì, maggio 25, 2017

Il Paese anormale dove Moggi comanda - Sentenza 36350/15 Cassazione

Per non dimenticare, rileggiamo questo pezzo di Serra del 2006 e rileggiamole le motivazioni della Sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 2015.

Il Paese anormale dove Moggi comanda
di MICHELE SERRA 
(la repubblica 5 maggio 2006)
La cosa veramente triste, leggendo le intercettazioni telefoniche di Luciano Moggi con alcuni dei suoi amiconi preferiti, è che sono esattamente come le avremmo immaginate. Nel lessico, nelle intenzioni, nello spirito: ricalcate sulle nostre supposizioni ordinarie. Né migliori, né peggiori. 

Sono, senza scampo, senza sorprese, la sceneggiatura già mille volte scritta, mille volte recitata, di un potere italiano trafficone e ruffiano che essendo del tutto all'oscuro del binomio diritti/doveri vive, si muove e si assesta attorno al binomio favori/sgarbi. Un mondo di comparaggi e padrinati (dunque, e lo si sottolinea sempre troppo poco, un mondo esclusivamente maschile, e familista, e sostanzialmente arcaico) sempre in bilico tra illegalità da accertare e un molto accertato squallore. 

Come spesso accade nel nostro difficile Paese, diventa complicato perfino parlare di moralità in presenza di mentalità e persone che, esplicitamente, considerano perfettamente legittimo, e forse perfino lodevole, avvolgere i propri interessi di bottega in un fitto bozzolo di protezioni, raccomandazioni, strizzate d'occhio. Come spiegare a un direttore sportivo già chiacchieratissimo che non è proprio il caso di parlare con il designatore degli arbitri (cioè con la più delicata delle istituzioni calcistiche) come se fosse suo compare d'affari? E come spiegare al designatore degli arbitri che spetterebbe proprio a quelli come lui rimettere quelli come Moggi al loro posto, quando è evidente che tra i due la spalla, il sottoposto, è proprio il signor designatore? 

In conversazioni di questo genere - come già in quelle, giustamente proverbiali, dei furbetti del quartierino - non echeggiano mai quelle frasi che certificherebbero il buono stato di salute etica, o forse solo di salute mentale, di una comunità: mai uno "stia al suo posto e non si permetta", mai un "ma si rende conto che esistono delle regole?". Nessuno che infranga, anche solo verbalmente, quell'insopportabile patina di complicità, di "diamoci una mano", che fa da tinta madre a tutti i più unti canovacci nazionali. 

Ovunque un "tu" piacione e colloso, un clima da eterna rimpatriata (e si immaginano i ristoranti, i bavaglioli, le risate grasse) e una furbizia greve, da commedia dell'arte: quella stessa che poi vediamo, ripulita dei suoi quadri più inconfessabili, nei peggiori talk-show calcistici, dove "l'amico Moggi" da anni ammannisce a una platea spesso estasiata oscure facezie e sorridenti minacce, una specie di andreottisimo però imbertoldito, un'imitazione popolaresca del Potere che è parodia però senza saperlo. In fondo soprattutto penosa, e penosa non tanto perché rimanda a probabili prepotenze calcistiche, quando perché incarna (altro che calcio...) la vecchia furbizia contadina italiana appena appena camuffata, incravattata di fresco, e riscodellata in video per la gran gioia di chi non vuole fare la fatica di pensarci diversi, noi italiani, da questo stucchevole arrangiarci da subalterni: da servi, altro che da potenti. (Che la furbizia sia caratteristica servile, e mai signorile, è la sola fondamentale scoperta politica che milioni di italiani devono ancora fare). 

E il tutto, poi, si badi bene, ben radicato e fiorito lungo 
il corso degli anni alla corte della sola accertata monarchia borghese d'Italia, la Juventus dello "stile Juventus", gli Agnelli dello "stile Agnelli". Le cui giovani leve, esauriti i dovuti vizi di crescita, si spera possano dare una sterzata all'andazzo, vincendo mezzo scudetto di meno, magari, ma guadagnando un minimo di "immagine", parola così di moda che sempre più spesso ci si dimentica che forse significa qualcosa. 

Tanto, Moggi un altro lavoro lo troverebbe di sicuro: il calcio italiano, e il Paese in genere, non pare abbiamo i normali anticorpi bastanti a difendersi dai prepotenti e dai furbi. Difatti, suscitando altri tremiti in altri ambienti attenti allo stile, ogni tanto corre la voce che l'indubitabile signore Moratti voglia portarlo all'Inter, questo fenomeno della telefonata giusta. 
Speriamo di no. Ma non stupiamoci se è sì.--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

La Sentenza 36350/15 della Corte Suprema di Cassazione (è al vertice della giurisdizione ordinaria italiana, non è giustizia sportiva...
), 
precisa come andarono le cose.

venerdì, marzo 17, 2017

Lettera

“LA MEDUSA NON CI HA IMPIETRITI”
"Lettera" di Mario Rigoni Stern all'amico Primo Levi
(dal libro "Aspettando l'Alba")

Valgiardini 12 aprile 1987
Caro Primo,
Questa è una lettera che ti debbo per vecchia amicizia.
Ti avevo scritto dopo aver letto il tuo ultimo libro e ti dicevo della mia solidarietà e di come il tuo saggio così intelligente e spietato mi avesse riportato tali e tante sofferenti memorie da levarmi il sonno; quel sonno che tu ora hai ritrovato e che ti auguro simile a quello di quando ragazzi nelle sere di primavera ci si addormentava all'improvviso dopo aver tanto giocato all'aria nuova.
Ma tu, ieri, non avevi giocato all'aria di primavera e forse a farti dormire così, a farti chiudere gli occhi su questo mondo indifferente e venefico, è stata la stanchezza di quella lontana stagione del 1945.
Sono ormai tanti anni che ci conosciamo, più di trenta (erano appena usciti i nostri due primi libri), e una vigilia di Natale a chi ti intervistava esprimesti il desiderio di trascorrere con me la notte del 25 dicembre, in un rifugio tra le montagne sepolte dalla neve. Ti scrissi subito: "Vieni, andremo a camminare per nevi incontaminate su per la montagna; accenderemo il fuoco dentro un bivacco e staremo in silenzio a guardare le fiamme: non avremo bisogno di spumanti e di panettoni, nè di suono di campane; a noi basterà la compagnia del fuoco".
Non venisti, allora, perché i legami del lavoro e della famiglia ti tenevano a Torino.
Ma un giorno di primavera - era come oggi la stagione - arrivasti con Lucia. Guardammo insieme le arnie delle api, ti mostrai i favi che gocciolavano miele, la regina, la covata, i fuchi, le operaie intente ai loro lavori. Tu con ironica sapienza frenavi il mio entusiasmo dilettantesco e con ragionamento logico ridimensionavi il lavoro e l'ordinamento della società delle api. Poi andammo per un sentiero poco lontano da casa a vedere i caprioli; mi chiedevi dei fiori, degli arbusti, degli alberi, dei funghi, degli animali silvestri.
Tutto questo era bello, ma ogni tanto tra noi scendeva un silenzio improvviso che non era per ascoltare i rumori e le voci della natura, ma perchè la tua e mia presenza, reciprocamente, rievocavano i fantasmi di un' altra primavera che, seppur lontana, avevamo vissuto con simili esperienze.
Così una mezza frase, una parola in tedesco, in russo, polacco, o yiddish, scendeva tra noi provocando una sorte di timoroso pudore.
Quante volte, Primo, in questi ultimi anni ti dicevo: "Vieni, andremo per boschi dove non incontreremo gente estranea; cammineremo sul muschio tra il verde cupo come sul fondo del mare; oppure con gli sci tra il silenzio luminoso, e questo ti farà dimenticare l'angoscia di Auschwitz, e gli impegni di lavoro e della famiglia". Come per un breve periodo ti era capitato durante un' estate.
Eri stato in un luogo fuori mano delle montagne valdostane che con nostalgia mi raccontavi: qualche laghetto a duemila metri che rispecchia il cielo; pascoli da camosci fioriti di genziane, anemoni, soldanelle, miosotis; lenzuola di neve sui fianchi dei monti; ghiacciai sulle vette intorno. E' un posto sconosciuto ai turisti e che anch'io conosco; avevamo progettato di ritornarci insieme per sostare, camminare, arrampicare, guardare le stelle e godere il sole. Sarebbe stato l'opposto del campo di concentramento.
Ma forse anche un luogo come questo non avrebbe allontanato i ricordi e i fantasmi.
Un pomeriggio d'inverno mi trovai a Torino, era il momento del traffico più intenso e la nebbia scendeva lungo i corsi e si arrampicava per le finestre dei palazzi. Ti telefonai. Uscisti di casa e c'incontrammo in via Roma e poi, ti ricordi, siamo andati a camminare tra la gente. Mi raccontavi della tua infanzia, di un negozio dove si vendevano a metri le stoffe e le tele, e di un dialetto che ormai più nessuno capisce. Entrammo anche in un bar nei pressi di corso Re Umberto e stemmo li seduti per qualche ora a parlare.
Il discorso cadde sugli usi e i riti delle tradizioni ebraiche. Ricordo che letteralmente bevevo le tue parole ed era come se un mondo antichissimo e saggio mi si aprisse davanti per la prima volta. A ogni mia curiosità cercavi di dare una risposta. Quando ci alzammo da quel tavolino, solo allora, ci accorgemmo della gente che era lì a discutere animatamente davanti a un giornale sportivo disteso sul banco. Ci guardammo sorridendo come se noi fossimo depositari di un segreto vissuto e capito nelle terre di Polonia. Ieri, caro Primo, dopo che un giornalista mi ha comunicato per telefono la tua dipartita, mi sono un poco ripreso sfogliando i tuoi libri.
Tra le pagine di "Il sistema periodico" ho trovato una tua lettera del 1983, e da questa ho forse capito il tuo gesto.
Mi scrivevi di tua madre quasi novantenne e ammalata, di tuo figlio che era partito per gli Stati Uniti lasciando un grande vuoto nella vostra casa, di te e di Lucia che vi sentivate come "tagliati fuori dal mondo".
Ma tu sentivi anche un vuoto personale. "E' un pò come se nel mio ultimo libro avessi spesi tutti i miei capitali. Per un futuro vedremo; per adesso, tanto per non far arrugginire il cervello e la macchina da scrivere, sto traducendo un libro di antropologia di cui non m'importa niente. Se vivessi come te sull'altipiano non avrei di questi problemi, mi metterei gli sci da fondo e via; ma qui è diverso; malgrado la crisi ci sono auto dappertutto, ferme o in moto, e solo per uscire dalla città ci vuole un'ora di lotta e di pazienza. E anche tutti i vecchi amici sono in crisi, chi per salute, chi per quattrini, chi per i figli che girano male. E' per questo che ti scrivo. Caro Mario, scusa lo sfogo, un giorno o l'altro mi rimetto in piedi ..." .
 Fra le cose più care ho anche due tue poesie; una è senza data e ha i versi scritti su un computer (già, il giorno che l'acquistasti mi telefonasti con entusiasmo, invitandomi a farlo anch'io, "è come un gioco, dicevi, in una giornata impari a usarlo anche tu !").
Avevi aggiunto con la tua calligrafia chiara e sottile: "Questa è inedita e temo che lo rimarrà a lungo. La dedico ad Anna". L'altra poesia è inserita in una lettera tutta manoscritta, dove tra l'altro dicevi: "So bene che fare poesie non è un mestiere tanto serio, ma mi prendo egualmente la libertà di mandarti questa che s'intitola "A Mario e a Nuto (1)":

"Ho due fratelli con molta vita alle spalle, nati all'ombra delle montagne hanno imparato l'indignazione nella neve di un paese lontano, ed hanno scritto libri non inutili. Come me, hanno tollerato la vista di Medusa , che non li ha impietriti. Non si sono lasciati impietrire dalla lenta nevicata dei giorni". 

E' per uso interno e privato... Ma io, oggi, la rivelo perchè tu, più di ogni altro, non ti sei lasciato impietrire "dalla lenta nevicata dei giorni".
Ieri, caro Primo, era una giornata splendida di primavera e le api raccoglievano polline e nettare dai crochi e dalle eriche. Ho visto il ritorno delle prime rondini e il bosco risuonava dei canti degli uccelli in amore.
Ma io piangevo perchè tu te n'eri andato.
Oggi il cielo è velato e un temporale gira per le montagne. Ma non piango più perchè ho nel cuore il tesoro che tu mi hai lasciato e che mi aiuta a essere meno stupido e meno cattivo. Ciao Primo, arrivederci tra quelle nostre montagne nascoste; te lo voglio dire, anche se tu sorridi mesto a questo mio "arrivederci".

(1) Nuto Revelli, Tenente della 46^ Comp. del Btg. Tirano, Divisione Alpina Tridentina.

MARIO RIGONI STERN
"Aspettando l'Alba"

La prova

Recensione de "La prova" di Marco Belpoliti
Capisco che possa essere stato pubblicato, ma che possa essere stato ri-pubblicato non riesco a comprenderlo.
Massimo rispetto per l’attento curatore dell’opera di Levi, ma questo libretto è proprio poca cosa. Qualche pagina piacevole ad esempio l’incontro con Stanisław Lem oppure quello con Rigoni Stern, ma tutto il resto è abbastanza disomogeneo. Sono appunti di viaggio molto “sconnessi” con dentro di tutto un po’ ma tutto un po’ inutile.
Si parla appunto di “libri non inutili” durante l’intervista a Stern, ecco questo mi pare sinceramente inutile. Perché raccontare quei due-tre sogni dell’autore, che attinenza hanno col resto? Che interesse possono avere per chiunque?
In alcuni tratti l'ho trovato anche irritante. Mi è sembrato uno scimmiottare la scrittura proprio di Levi laddove Primo si soffermava sui dettagli. Ma Levi scriveva in modo magistrale ed i "dettagli" erano interessanti! non le banalità che ho letto in questo libretto. Mah

vadi lei

Suona un tipo.
Scendo.
E' quello della Bofrost.
Giramento di palle.
Poi penso, vabbé cerca di sfangarla, poraccio.
Lo sto a sentire.
Sfoglia il catalogo e mi chiede dove faccio la spesa.
Al supermercato dico io.
Mi cade l'occhio su una pizza surgelata, costa 8.39E.
Sticazzi.
Lui mi dice che non vogliono cambiare le mie abitudini.
Manco mia moglie ci riesce, penso...
C'è un'offerta, dice.
Ah...
Se prendo tre prodotti ho uno sconto su qualcosa.
Ah...interessante.
E' comodo, Lei fa l'ordine e sabato passiamo a consegnare...
SABATO???
Questi sono coglioni. Sabato?
Vabbé continuo ad ascoltare.
"Noi vogliamo che Lei vadi ancora al..."
vadi? vadi? ha detto VADIIII?
"No grazie, non compro niente".

mercoledì, febbraio 22, 2017

Museo Stasi

Oggi su Metro ho trovato questa fotografia che mi ha rimandato subito alla mia visita di qualche anno fa: https://www.youtube.com



metronews
edizione di mercoledì 22.02.17 (pag. 6)