mercoledì, gennaio 31, 2024

Il discorso di Liliana Segre - 30 gennaio 2024

Testo integrale del discorso pronunciato da Liliana Segre il 30 gennaio 2024 al Memoriale nel corso della cerimonia organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio in memoria della deportazione da Milano:
 

Lo scorso 27 gennaio sono successe cose che mi hanno lasciato sgomenta. Io non penso proprio di dover rispondere, di dovermi discolpare in quanto ebrea, di quello che fa lo Stato di Israele. Trovo sbagliato mescolare cose completamente diverse, come hanno fatto tanti che hanno pensato di mettere in discussione il 27 gennaio per quello che sta succedendo a Gaza. Evidentemente hanno un bisogno spasmodico di fare pari e patta con la Shoah, di togliere agli ebrei il ruolo di vittime per antonomasia, di liberarsi da un inconscio complesso di colpa.
Questo fenomeno segnala anche un fallimento educativo: in questi più di vent’anni dall’approvazione della legge, sembra che qualcuno abbia scambiato il giorno della Memoria per una specie di regalo fatto agli ebrei. Un regalo da revocare se gli ebrei si comportano male. Ma allora siamo davanti a una catastrofe culturale. Il 27 gennaio non è fatto per gli ebrei. Gli ebrei hanno 365 giorni della memoria all’anno, non gli serve il 27 di gennaio. Il 27 gennaio serve per ricordare agli europei un crimine europeo e agli italiani, purtroppo, un crimine anche italiano.
A questo proposito, dato che si è giustamente parlato di male assoluto, penso che occorra riflettere sul fatto che non si arriva così, un giorno per caso, a un assoluto. Ci si arriva attraverso un lungo percorso nel quale ogni passaggio è funzionale a rendere possibile, a rendere accettato, a rendere addirittura condiviso da molti, quel male. La partenza del convoglio del 30 gennaio 1944 è, in altri termini, un punto di arrivo. Perché si può giungere a questo solo se, guardando a ritroso, si sono percorse tutte le tappe precedenti: la partecipazione alla guerra al fianco di Hitler, prima la campagna razziale, le leggi razziste, e prima l’avventura coloniale per sottomettere popoli giudicati inferiori; prima ancora l’abolizione di ogni spirito critico attraverso la propaganda di regime, prima l’abolizione della libertà della stampa, l’abolizione dei partiti, l’eliminazione di ogni opposizione, l’instaurazione di un potere assoluto senza né controlli né bilanciamenti. Condannare il male assoluto senza condannare la catena che lo ha reso possibile non avrebbe senso.
Ma da qui, dal binario 21 della stazione Centrale di Milano che oggi è il memoriale della Shoah, i convogli che partivano, partivano e arrivavano dove c’era il male assoluto. Ancora oggi invece i negazionisti tendono a confrontarsi con le nostre testimonianze e a giudicarle non per i sentimenti, per i lutti, per le tragedie che avevamo vissuto; ma cogliendo nel ricordo, magari un pochino confuso, di fatti più grandi di noi, la data, il numero delle persone quel giorno andate al gas, dettagli che li rendevano felici e sicuri di poter negare ciò che questo posto testimonia. Questo posto, però, parla da solo: i ragazzi che vengono a visitarlo non possono dimenticare il male assoluto. Anche se travolti da una realtà che li distrae – e che a volte non fa scegliere loro la cultura – il loro futuro è nelle loro mani. E se non sceglieranno la cultura, se non sceglieranno di leggere, leggere, leggere tutti i pareri e tutte le testimonianze, non solo della Shoah, non potranno diventare quelle persone colte che pensano con la loro testa, che sanno fare le loro scelte, che non sceglieranno mai un totalitarismo dove una persona sola decide che cosa penseranno tutti.
Saranno i nuovi italiani. Saranno quelli che andranno a votare – mentre il 40% come sappiamo – non vota. Saranno quelli che saranno in grado di dire veramente di un luogo come questo: «Mai più». Altrimenti saranno, purtroppo per loro, degli indifferenti. È una nonna che parla, una nonna che per fortuna ha dei nipoti e che spera anche di poter arrivare a vedere dei pronipoti. Una nonna che finora ha molto sperato nel futuro, mentre questo periodo così triste così, pericoloso per tutti, così violento negli atti di tutti i giorni a prescindere dalle guerre e con le guerre, mi fa pensare – e purtroppo lo dico tante volte – di essere vissuta invano.
Io spero che il futuro faccia sì che si dica quella vecchia lì la pensava in un modo, ma invece sbagliava. Io spero ardentemente di sbagliare.

Fonte: https://www.memorialeshoah.it/notizia/il-discorso-di-liliana-segre-30-gennaio-2024/ 

sabato, gennaio 20, 2024

Arbeit Macht Frei di Primo Levi

Come è noto, erano queste le parole che si leggevano sul cancello di ingresso nel Lager di Auschwitz. Il loro significato letterale è «il lavoro rende liberi»; il loro significato ultimo è assai meno chiaro, non può che lasciare perplessi, e si presta ad alcune considerazioni.

Il Lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin dall’inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio; e quindi credo da escludersi che quella frase, nell’intento di chi la dettò, dovesse venire intesa nel suo senso piano e nel suo ovvio valore proverbiale-morale.

È più probabile che avesse significato ironico: che scaturisse da quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo, di cui i tedeschi hanno il segreto, e che solo in tedesco ha un nome. Tradotta in linguaggio esplicito, essa, a quanto pare, avrebbe dovuto suonare press’a poco così:

«Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».

In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. Questa volontà appare già chiara nell’aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all’assurdo, nell’universo concentrazionario.

Allo stesso scopo tende l’esaltazione della violenza, essa pure essenziale al fascismo: il manganello, che presto assurge a valore simbolico, è lo strumento con cui si stimolano al lavoro gli animali da soma e da traino.

Il carattere sperimentale dei Lager è oggi evidente, e suscita un intenso orrore retrospettivo. Oggi sappiamo che i Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, non erano, per così dire, un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi); non erano una triste necessità transitoria, bensì i primi, precoci germogli dell’Ordine Nuovo. Nell’Ordine Nuovo, alcune razze umane (ebrei, zingari) sarebbero state spente; altre ad esempio gli slavi in genere ed i russi in specie sarebbero state asservite e sottoposte ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.

I Lager furono dunque, in sostanza «impianti piloti» anticipazioni del futuro assegnato all’Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valida solo per quest’ultimo.

Se il fascismo avesse prevalso, l’Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio, e quelle parole, cinicamente edificanti, si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine e di tutti i cantieri.

Tratto dalla rivista «Triangolo Rosso», Aned, novembre 1959

Cfr.: https://www.primolevi.it/it/arbeit-macht-frei

martedì, gennaio 16, 2024

'L "Grande Torino"

Côme ‘na storia, quasi. Scôtè: “’Na volta j’era

‘na squadra turineisa, ‘na squadra forta e fiera.

A la piegavô an pochi, përchè l’era d’assel,

a la spôntavô nen: l’ha mach pôdôlu ‘l cel!


E chíel ch’a lô savìa, a l’era grev côl dì

ëd lacrime pesante. Le nivôle sôn lì

a pochi pass da tera…e lôr vôlavô pian,

pôntavô su Turin, tôrnavô da lôntan…


Superga, su ‘n côliña, cha speta, grisa, fërma,

tërmôla sôta ‘n côlp,  ‘nt le nivôle së stërma…

A veul nen feje ‘d mal, no, no, veul nen tradìe:

stí fíeuj l’han tanta fiusa, sôn lì…l’a deuv rapìe.


Quaidun pì ‘nnsù che nôi a l’ha vôrssù côsì.

A l’ha fôrgiaje prima, samblaje s-ciass, unì

sti unich giugadôr ant una sôla morssa,

dë spirit generôs, scatant: ‘na sôla forssa.


Un “foot-ball”, ôndes fìeuj an maja granatôn

e singh scudet ëd fila. Da meuire d’emôssiôn!


Për nen dësperdie ‘nt j’ani côn ël passè ‘d l’età

l’ha dëstissaie ‘nssema, l’ha piaje ‘nt ‘ns brassà.


El cheur dël vej Turin l’è fulminà: ‘na sort

parìa l’è mach un seugn…l’a lôr sôn tuti mort!

A sfilô për le strà a spale: i giugadôr

ch’ai portô a marciô e piôrô, frustà da tant dôlôr.


An testa la bandiera: ‘nt ël rôss a rampía ‘l Tor

lusent, a rendio ômagi, ant i so ricam d’or.

E peui Turin, Turin, tuta Turin l’è lì

Ch’a prega ‘nginôjà, përchè peul nen fè ‘d pì


E lôr adess lassù? ‘Nt gir ëd fantasìe

j’anmaginôma a gieughe dë splendide partìe:

s’a guardô la côliña da ‘dôva l’han pià ‘l vol

a mandô giù ‘n basin e peui a tirô “goal”!”


Côme ‘na storia, quasi, un seugn:”’Na volta j’era 

‘na squadra d’invincibii, ‘na squadra forta e fiera.


Concetta Prioli

Poetëssa an lenga piemontèisa. 

Nassùa a j'8 dë dzèmber 1919, mòrta ai 16 dë stèmber 1990.

-------------------------------------------------------------------------
Traduzione:

Il "Grande Torino"

Come una favola, quasi. Ascoltate: "C'era una volta 
una squadra torinese, una squadra forte e fiera.
La piegavano in pochi, perchè era d'acciaio,
non la spuntavano: solo il cielo l'ha potuto fare!

Per lui - il Cielo - che lo sapeva, quel giorno era difficile
di lacrime pesante. Le nuvole sono lì
a pochi passi dalla terra e loro volano piano,
puntavano su Torino, tornavano da lontano...

Superga, sulla collina, aspetta, grigia, ferma,
trema sotto il colpo, si nasconde tra le nuvole
Non vuole fargli male, no, no, non vuole tradirli:
questi ragazzi hanno tanta fiducia, sono lì...

Qualcuno più in alto di noi ha voluto così.
Li ha forgiati prima, stretti insieme, uniti
questi giocatori unici in una sola morsa,
di spirito generoso, scattanti: una forza unica.

Un "Football", undici ragazzi in maglia granata
e cinque scudetti di fila. Da morire dall'emozione!

Per non separarli nel corso degli anni con il passare del tempo
li ha spenti insieme, li ha presi tra le sue braccia

Il cuore del vecchio Torino si è fulminato: la sorte
sembrava solo un sogno...là loro sono morti tutti!
Sfilano per le strade sulle spalle: i giocatori
che portano le salme, camminano e piangono, sferzati da tanto dolore.

Alla testa la bandiera: nello sfondo rosso scalpita il Toro
lucente, a rendergli omaggio, con i suoi ricami d'oro.
E poi Torino, Torino, tutta Torino è lì
CHe prega inginocchiata, perchè di pi non può fare

E loro adesso lassù? Nella fantasia
già li immaginiamo a giocare spledide partite:
ci guardano dalla collina da dove hanno preso il volo
e ci mandano bacini e poi tirano e fanno "goal"!

Come una favola, quasi, un sogno: C'era una volta
una squadra di Invincibili, una squadra forte e fiera.

Così, all'improvviso

Ieri sera, poco prima di cenare, Vittorio (9 anni) ha chiesto a suo zio:

"Sai qual è il problema più grande della vita?"
"Qual è?"
"La vita..."